Interviste

Intervista rilasciata da Mario Verdone su Carlo

A Mario Verdone, padre di Carlo, storico del cinema e critico cinematografico, grande ambasciatore del cinema italiano nel mondo, abbiamo rivolto qualche domanda sconfinando inevitabilmente (confidando nell’indulgenza dell’intervistato) anche nel privato, ma soltanto per tentare di penetrare meno superficialmente nella personalità artistica del figlio.

Dopo circa trent’anni d’ininterrotta carriera artistica (21 film in qualità di regista-soggettista-sceneggiatore-attore, 8 film come attore, lavori teatrali e televisivi) si può ragionevolmente tentare un bilancio “cum grano salis”. Da storico del cinema e critico cinematografico, come giudica l’opera complessiva di suo figlio Carlo?
Lo giudico un percorso serio di un ragazzo che ha cominciato ad osservare la realtà che lo circondava, sottolineando “tic” e “difetti” di certa italianità. E’ sempre andato su “dettagli” vocali e gestuali apparentemente non comici, ma che diventavano esilaranti e sorprendenti per il suo modo di porli al pubblico. Lui è sempre partito dalla voce per risalire al “tipo”. Questo( almeno in teatro e nei primi suoi due film Un Sacco Bello e Bianco, Rosso e Verdone) è stato per lui il meccanismo nella creazione. Ma quello che apprezzo di più in lui è stato il sapersi sempre rinnovare. Ed infatti sono trent’anni che recita e dirige. Ha rigore e disciplina assoluti.

Rispetto alla cattiveria al vetriolo della grande commedia all’italiana (Monicelli, Risi, Scola), Carlo Verdone è stato spesso considerato dalla critica (che ne ha, comunque, riconosciuto la nobile matrice) eccessivamente accomodante, addirittura bonario, troppo sbilanciato alla fine verso una conclusione tutto sommato abbastanza ottimistica. Condivide questo giudizio?
No affatto. Innanzitutto ogni suo film ha una vena di malinconia molto marcata. Non ricordo un finale senza una leggera tristezza che contagia ogni suo racconto. Quella che viene scambiata per “bonarietà” è spesso un grande affetto per i suoi personaggi. Ma spesso il contorno nei quali si muovono è tutt’altro che buono e rassicurante. Lo sfogo dell’emigrante in Bianco,Rosso e Verdone, la morte della nonna (del medesimo film) nel seggio elettorale (dove tutti sono cinicamente distratti a considerare valido o meno il voto di una persona appena spirata),Compagni di Scuola, il cinismo del “Gallo Cedrone”, la miseria di “C’era Un Cinese In Coma”, il “vuoto pneumatico” di Ivano e Jessica in “Viaggi di Nozze” per arrivare al professor Cagnato di Grande,Grosso e Verdone. Ecco, in quest’ultima perfida interpretazione sono d’accordo con lui. E’ stata veramente eccellente. Possiamo dire che in lui c’è spesso un’amara compassione ma non indulgenza.

Qual è il film di Carlo che più preferisce e perché? E, viceversa, quale il meno amato e perché?
Borotalco è il film che preferisco. La scrittura, i colpi di scena ,le battute fulminanti ,il finale… E’ una vera commedia all’americana come struttura. Con una Giorgi diretta molto bene, frizzante,luminosa,vivace. Forse Gallo Cedrone è quello che più mi ha lasciato perplesso. Non capivo se stava tornando indietro oppure se sentiva veramente la necessità di raccontare il “trasformismo” delle persone in un comportamento quasi “bipolare”. Sento che molti oggi lo rivalutano e lo vedono diversamente. All’ epoca rimasi titubante. Ma a mio avviso ha fatto di meglio. Anche se come attore aveva un paio di momenti notevoli. Come quel finale sul palco elettorale…

Che tipo di evoluzione (stilistica, linguistica, estetica, narrativa, recitativa) riscontra tra il primo e l’ultimo Verdone?
Il primo periodo di Carlo è da grande virtuoso. Frutto delle esperienze teatrali precedenti e direi anche televisive. Ma da “Io e Mia Sorella” in poi vedo che si fa largo un autore che cresce nei toni più raffinati,in una scrittura più robusta ed in una recitazione più asciutta. “Compagni di Scuola” è un gran film. Ma “Maledetto Il Giorno …” una sorpresa assoluta. Sembra sparita la sua anima romana e si fa strada una commedia più internazionale nei soggetti e nelle location. E cambia, a mio avviso anche il suo modo di recitare. Decisamente più sobrio, più essenziale. Poi torna all’osservazione italiota di “Viaggi di Nozze” centrando in pieno la noia, il cinismo, l’evoluzione del linguaggio periferico o meglio il degrado del linguaggio in generale. E poi rientra in un film dolente come “Sono Pazzo di Iris Blond”, girato tutto in Belgio. Credo che Carlo abbia due ,tre anime che ogni tanto deve far riemergere. . .

Ritiene Carlo quasi un figlio d’arte o pensa che avrebbe potuto imboccare una strada del tutto diversa? Lei, Mario Verdone, quanto pensa d’aver pesato nella scelta di Carlo?
Da bambino e da ragazzo aveva una grande sensibilità. Sapeva fare qualsiasi rumore con la bocca: il treno, lo sciacquone, la zanzara, il tram… Aveva un ottimo orecchio e un buon ritmo. E’ un bravo batterista. Ma questo suo amore per il tamburo lo deve a me che l’ho portato tante volte al Palio di Siena. Io credo che la bella atmosfera che c’era dentro casa l’abbia molto ispirato ad una goliardia intelligente. Io e mia moglie spesso facevamo del teatro in casa con amici musicisti di chiara fama. Era un bel divertimento. Facevamo la Duse e D’Annunzio o la parodia di Assunta Spina… Ecco, Carlo probabilmente ha respirato molta di quella creatività casalinga. Poi indubbiamente il vedere spesso nel nostro salotto persone come Pasolini, Rossellini, De Sica ,Zavattini etc … non deve averlo lasciato insensibile. Non credo sia figlio d’arte. Ma semmai io “padrino artistico”, motivatore di Carlo artista. Carlo e Luca avevano la stessa ironia trasmessagli da me e da Rossana mia moglie. E’ come se avesse ricevuto una spinta ad osservare ,nei dettagli, la realtà. Ad osservarla e ad assorbirla in un modo veramente intenso e particolare. Un velo di inquietudine spesso si affaccia sul suo viso quando mi viene a trovare. Ridiamo, parliamo, ci scambiamo molte opinioni ma poi sul finale si fa largo uno strano umore. Come se qualcosa lo turbasse. E’ difficile penetrare l’anima di Carlo. Lui si lascia andare solo con i figli ed è un ottimo padre. La qualcosa mi rende molto felice. Ma comprenderlo fino in fondo è impossibile.

C’è ancora un futuro per la commedia all’italiana o – Carlo Verdone e pochi altri a parte – la ritiene una stagione inevitabilmente avviata verso il definitivo tramonto?
La Commedia Italiana avrà futuro quando smetterà di essere “all’italiana”, con le solite tematiche. Oggi viviamo in un epoca nuova a contatto con tante altre culture. Voler tornare agli stereotipi di un tempo è un grave errore. Dobbiamo osservare una nuova realtà (anche se meno rassicurante della precedente) e saperne cogliere i lati comici, malinconici e anche drammatici. L’intelligente ironia del regista e dell’interprete dovranno trovare il senso dell’equilibrio per raccontare tanti questi stati d’animo. Ma attenzione non possiamo rinunciare alla risata. Oggi più che mai ne abbiamo bisogno. Come tanto bisogno abbiamo di film che mettano al bando banali soggetti, spesso volgari, che non fanno che allontanare pubblico dalle sale. Cominciamo a pensare seriamente all’internazionalità dei nostri prodotti. Questo è già un buon inizio per sopravvivere e rinnovarsi.



Mario Verdone

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Carlo, ma perché hai scelto me ?

Paola Cortellesi intervista il regista romano e lo mette all'angolo:
'Devi spiegarmi perchè mi hai scelta per il tuo nuovo film Sotto una buona stella', domanda. Dal set alla vita privata, ecco tutto quello che nessuno avrebbe mai osato chiedergli
(testo raccolto da Cristina Rogledi)


Seduta nel salone di Verdone con vista su tutta Roma, Paola Cortellesi, mette gli occhiali, impugna la penna e si cala in via del tutto eccezionale nel ruolo della giornalista. Il suo inedito compito è intervistare per Oggi il 'suo' regista, Verdone, che l'ha diretta nel flm Sotto una buona stella (nelle sale dal 13 febbraio). La Cortellesi nella commedia è Luisa, la vicina di casa di Carlo, una donna che avrà un ruolo determinante. Verdone, invece, è Federico Picchioni, un uomo che si separa dalla moglie quando i fgli sono ancora piccoli e da allora provvede al loro mantenimento ma si dimentica completamente di fare il padre. « Dai Paolé, buttate », dice Verdone divertito dalla situazione.Carlo, scusa, ti sei acceso una sigaretta e allora ne approftto:

Quand'è che smetti di fumare?
Eh no, non vale! Vabbè, smetto dopo l'uscita del film. Scrivilo pure. Paola: I lettori di Oggi sono testimoni eh!

Adesso dimmi perché ti sembravo giusta per il ruolo di Luisa. E poi vorrei sapere: che cos'ho in comune con lei secondo te?
Luisa è stata scritta su misura per te. Ricordi quando venni ospite a Zelig e ti dissi: 'Il prossimo flm lo facciamo insieme'? Ecco, era vero. Ti ho scelta perché in te ho visto un'intelligente leggerezza e tanto buon senso. E poi mi è piaciuta la classe con cui padroneggi il palcoscenico. Viviamo in un mondo di nevrotici e ho apprezzato lo straordinario controllo che hai della tua emotività. Sotto una buona stella è la storia della caduta e della resurrezione di un padre. Una rinascita che si compie anche grazie all'incontro con Luisa. Quando muore all'improvviso la ex moglie del mio personaggio, Picchioni, la sua convivenza forzata con i due fgli diventa una vera e proria guerra. È il buon senso di Luisa che aiuta questa famiglia a ricomporre i pezzi.

Scusa Carlo, ma stai parlando di me o del mio personaggio?
Sto parlando di te. Sei perfetta per fare Luisa perché quelle caratteristiche le possiedi davvero. Ti ho osservato: hai uno straordinario approccio al quotidiano. Sei una donna realizzata, felice del marito, della fglia. Forse anche per questo piaci molto anche al pubblico femminile.
Evvai! Mi lusinghi.

Evvai! Mi lusinghi. Di' la verità, Luisa è la vicina che vorresti anche a tu?
Eh sì! Una vicina pericolosa però. Come fai a non innamorarti di una così?.

Carlo, quand'è che il tuo personaggio capisce le sue colpe rispetto ai fgli?
È una scena cruciale. Picchioni sta festeggiando il compleanno quando arriva la telefonata di suo fglio Niccolò, che non chiama mai, e lo avverte che la mamma è gravissima in ospedale. Quando Picchioni arriva lì, vede i suoi fgli abbracciati che si fanno forza, lo guardano e poi gli voltano le spalle, come se non esistesse. In quell'istante realizza che non è mai stato un padre.

Ho una curiosità: che figlio sei stato tu?
Prima di tutto un figlio fortunato, con due grandi genitori. Ho avuto una madre molto emotiva e intelligente che mi ha trasmesso il gusto dell'ironia e dell'osservazione. Mio padre, invece, mi ha insegnato il rigore e mi ha fatto viaggiare molto. Da parte mia, ho sempre dimostrato di avere una vena artistica e sono stato anche un ragazzo molto malinconico. Per un lungo periodo sono andato a rifugiarmi sul terrazzo condominiale per fumare di nascosto e guardare il tramonto in silenzio.

Carlo, ma sei un crepuscolare?
Assolutamente sì. Anche nei miei flm c'è sempre una patina di malinconia perché è una parte di me stesso.

È diffcile cimentarsi con la commedia?
Sì. Devi mantenere nel tono della commedia temi delicati e forti che sarebbero da film drammatico. La bravura degli sceneggiatori e del regista è capire fino a dove spingersi sul lato serio per poi rientrare nel tono leggero. Serve molto senso dell'equilibrio.

Se tu dovessi sintetizzare tre comandamenti per essere un buon padre?
Penso alla qualità del tempo passato insieme. Mio padre era sempre in viaggio ma quando era a casa, era un papà eccezionale. La domenica smetteva di essere il grande professore, veniva con me e mio fratello Luca a giocare a pallone sotto il sole, in canottiera. Poi c'erano i sabati in cui ci portava nelle gallerie d'arte e ci spiegava il perché del cubismo o del futurismo. Io ho capito che per essere un buon padre devi anche capire quando è il momento di smettere di 'fare il preside' per imparare dai figli. Questo passaggio avviene solo se c'è dialogo e attenzione.

I tuoi film indagano sempre nei rapporti di coppia e nella famiglia. Perché porti avanti da anni questa scelta?
Perché più passa il tempo e più sento che la famiglia è importante e lo dico che io sono separato, anche se ho un ottimo rapporto con mia moglie Gianna. La famiglia è davvero l'unico baluardo, l'unica roccaforte in questo mondo così smarrito.

Di chi ti fidi?
Io di nessuno. Possiamo costruirci un'isola felice tra di noi e possiamo farlo da soli, non abbiamo bisogno del governo e dei politici. È una grande possibilità, non va sciupata.

Picchioni lavora nel mondo della finanza e perde tutto. È una critica a quell'ambiente?
Viviamo nel mondo delle banche, siamo schiavi della finanza e la cronaca ogni giorno ci racconta di maxi truffe. Io osservo il sociale e parto da lì, non so scrivere un film sganciato dalla realtà.

Hai mai rischiato di essere un padre come Picchioni?
No. Però a un certo punto ho rischiato di perdere dei momenti di crescita dei miei figli perché non davo quella qualità di presenza di cui avevano bisogno. Era il 1999, presi Paolo e Giulia e partii per l'America. Quel viaggio ci aprì a un nuovo rapporto. Loro si ammalarono e io li curai, così mi videro fare cose da padre, come correre in farmacia, pulire dove erano stati male e questa 'nomalità' fu la nostra salvezza. Da allora viaggiare insieme è una consuetudine.

Sul set mi sentivo quasi a casa. Sono arrivata intimorita e poi, invece, mi è sembrato di conoscerti da sempre. Ero a mio agio!
È vero, è stato facile lavorare insieme. Paola, io ho la sensazione che tu sia una delle migliori attrici con cui ho lavorato. Lo dico: insieme siamo una coppia fortissima!

Carlo, il tuo protagonista valuta l'idea di rimettersi in gioco in amore. Tu hai mai pensato di rifarti una vita?
Sì, ho provato a mettermi in gioco, ma mi sono reso conto che era troppo complicato. È un argomento molto delicato: è difficile spiegare a una donna che frequenti che tu hai un buon rapporto con la tua ex moglie e che la tua è ancora una famiglia unita. Le persone che ho incontrato non l'hanno capito. Peccato.



Paola Cortellesi

“Motori, ciak, azione! In viaggio con Verdone”

(Pubblicata su Quattroruote di Settembre 2013)

Per chi a Roma è nato e cresciuto, Carlo Verdone è molto più che un bravo attore, è una vera istituzione. La gente conosce a memoria le battute dei suoi film e i tic di alcuni suoi personaggi che lo hanno reso celebre e con cui, da sempre, racconta la storia della città. Non tutti sanno però che, cinema a parte, Verdone è anche un grande cultore delle quattroruote, protagoniste nei suoi film per caratterizzare al meglio un determinato ruolo.

Sarà proprio lui, fresco vincitore del Nastro d’argento come miglior attore non protagonista nell’ultimo film di Sorrentino, “La grande bellezza”, a raccontarci in che modo è cominciata questa sua passione per le automobili, in particolare per quelle inglesi, che non dovrebbero mai mancare in un suo garage ideale.

Carlo, dalla grande bellezza di Sorrentino a un’altra bellezza, quella dei motori. Quando nasce la tua passione per le auto?
Ai tempi delle elementari, un mio caro amico aveva una fantastica collezione di “Dinky Toys”, un’azienda che produceva, molto fedelmente, modellini di automobili. Ne aveva tante, dalle utilitarie a quelle da corsa e, nel vedere questa sua grande collezione, rimasi abbagliato. Da allora cominciai a guardare le auto con un occhio diverso, più attento. Mi soffermavo su i particolari, sui dettagli, le cromature, gli interni e in breve tempo diventai anch’io un collezionista, proprio come il mio amico.

E a casa, c’era qualcuno con cui condividere questa passione, tuo padre, tuo fratello?
Mio padre impiegò 4 anni per prendere la patente, era l’uomo più negato al mondo a guidare. Si aggrappava al volante neanche fosse una fune, era incerto, solo la retromarcia gli riusciva bene. In ogni viaggio ricordo che c’era sempre qualche automobilista che, incrociandoci, ci faceva le corna…
Quando acquistò la prima macchina, una Fiat 1100 nera, mi disse: “Carlo, dai, vieni in macchina con papà!” E io, pur sapendo dei rischi a cui andavo incontro, corsi lo stesso in macchina, felice. Dovevamo andare all’agenzia Ansa per cui lui scriveva degli articoli, ma, arrivati in Via delle Tre Cannelle, prese male una curva e andammo a finire contro un muro, distruggendo la macchina che aveva poche ore di vita. Era la conferma della scarsa sintonia tra le auto e mio padre tanto che poi si convinse a prendere delle lezioni private da un autista del centro sperimentale di cinematografia.
Tutta la mia attenzione, allora, si rivolse su mio zio Gastone. Aveva uno spirito playboy e non si faceva mancare la bella macchina: Lancia Ardea, Lancia Aurelia B24, come quella di Gassman nel sorpasso, Alfa Romeo Giulietta Sprint. Passavo i pomeriggi a far finta di guidare. Mi piaceva l’odore di quelle macchine degli anni 60, un odore particolare, forte, antico, di pelle vera e radica.

E la tua prima macchina?
Una grande emozione! Avevo sempre “rubato” le macchine di casa, la 500 e la 126 di mamma o la Fiat 132 di papà. Poi, nel 1978, con i soldi delle serate a teatro, acquistai una 127 bianca. Sentii in quel momento che potevo essere qualcuno. Ero fiero della mia macchina neanche fosse un’ammiraglia.
Dopo la 127, ho avuto una Ford Escort, una Lancia Prisma, un’Alfa Romeo 164, fino ad arrivare alla prima BMW e alla prima Lotus.

Lotus, un marchio di nicchia, da veri intenditori…
Decisamente, le Lotus restituiscono emozioni particolari, forti, sembra di guidare una macchina di altri tempi, dove senti ancora il rumore del motore, non come molte auto di oggi che somigliano un po’ troppo a delle sale d’aspetto, bellissime, ma fredde, dove ti senti più un funzionario che un automobilista.

Quali modelli hai avuto?
Ho cominciato con una Esprit e una Elan e poi sono stato il primo cliente in Italia ad avere il piacere di guidare sia l’Europa, sia l’Evora.
Si è instaurato un vero e proprio rapporto di amicizia con la casa di Hethel, anche perché il caso vuole che uno dei progettisti del marchio inglese abbia vissuto in Italia per qualche anno e, durante quel periodo, vedendo i miei film, sia diventato un mio fan, tanto che, al momento della consegna delle macchine, queste erano personalizzate con una targa con dedica.

Lotus a parte, oggi come vivi la macchina? La utilizzi per spostarti in città o solo per i viaggi?
La vivo molto poco. Oltre alla Evora, in garage ho una BMW 330 XD Touring e una Toyota IQ, ma non le utilizzo mai. Per i viaggi di lavoro mi muovo in aereo o col treno e a volte ho la fortuna di avere la macchina della produzione che mi viene a prendere. In città invece mi sposto esclusivamente con lo scooter, pratico, ci arrivo ovunque, in automobile sarebbe impensabile.

A proposito di città, da qualche mese Roma ha un nuovo sindaco. C’è un appello che vorresti fargli o un consiglio che gli daresti per migliorare quella che sempre più sembra essere una metropoli proibita per le macchine?
Quando giro i miei film mi muovo spesso per Roma tra una location e l’altra e mi sono reso conto che, oltre allo sciagurato manto stradale in pessime condizioni, la vera sfida di Marino sarà nella periferia, là dove le strade, specie le grandi arterie, Tuscolana, Appia, Tiburtina e i quartieri che attraversano necessitano di un intervento mirato, di un’idea creativa per poter essere meno caotiche. Mi ricordo che una sera dovevo andare sul set, un mobilificio in via Prenestina. Era un normalissimo giorno feriale...impiegai più di 4 ore a causa del traffico impazzito. Anche il centro, già stretto nella morsa dei pullman dei turisti, mal sopporta le macchine. Bisogna correre, intervenire, a volte chiudendo un occhio anche quando si tratta dell’archeologia, altrimenti questa città, che già traballa, rischia il collasso definitivo.

L’auto del futuro come la immagini?
Ancora col carburante, non che non ci sia la tecnologia per passare all’elettrico, ma al momento è ancora troppo forte la pressione delle multinazionali petrolifere. Immagino motori sempre più raffinati, in grado di ridurre consumi ed emissioni anche grazie all’apporto di nuove tecnologie, all’installazione di piccoli motori elettrici che affianchino l’unità principale durante il suo esercizio.

E quella dei sogni, esiste?
Ho una predilezione per le macchine inglesi e ho sempre desiderato di poter guidare una Aston Martin: sportiva, elegante, raffinata. Il classico del passato convive con le grandi innovazioni del presente.

Abatantuono è il testimonial Fiat per i veicoli commerciali. De Sica è il protagonista di una serie di spot per promuovere la sicurezza stradale. Tu hai mai pensato di essere il volto di una campagna pubblicitaria?
Era il 1984, mi telefonò personalmente Agnelli, chiedendomi se volessi essere il testimonial per il lancio della Fiat Uno diesel. L’offerta economica mi lasciò a bocca aperta, avrei potuto comprare una casa e risolvere tanti problemi. Ci pensai tre giorni e dopo essermi confrontato con la mia famiglia, rifiutai la proposta. Avevo paura che se avessi cominciato presto con il fare pubblicità la mia carriera cinematografica ne avrebbe risentito, temevo una perdita di autorevolezza della mia persona.
Ebbi il coraggio di dire no all’Avvocato che, rimasto male, presentò la stessa offerta a Troisi, da cui dovette incassare un altro rifiuto per il mio stesso motivo, salvaguardare l’immagine di attore. Sono convinto che abbiamo fatto la scelta giusta. Ho lavorato invece come regista di spot per l’Agip e per la IP quando diressi Roberto Baggio come attore.

Siamo nel cuore della bella stagione. C’è un viaggio che consiglieresti di fare a chi è in partenza?
Un percorso stradale attraverso cui riscoprire il piacere della guida. Ci sono dei tratti della Cassia, andando verso Siena, che per chi ama la guida, sono molto appaganti. Continui sali e scendi, tornanti, sembra di essere in un’altra epoca.
Così come sono bellissime anche le strade che tagliano la campagna marchigiana e portano verso Porto Recanati attraversando paesaggi splendidi.


Intervista a cura di Francesco Baldi - Settembre 2013.

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Verdone: «Quello che non sapete di me»

IL PRIVATO
Nel film, in programmazione nelle 36 sale del circuito The Space cinema dal 3 al 5 giugno, dopo essere stato presentato all’ultimo Festival del film di Roma, oltre i sorrisi, oltre le battute diventate gergo comune che fanno ridere adesso, come nel momento dell’invenzione, ci sono i ricordi, tanti. Ed è allora che Carlo ha un nodo in gola: «Quando la telecamera mi ha seguito fin dentro la camera che era dei miei genitori, svuotata come il resto della casa per essere restituita al Vaticano, mi sono sentito tremare le gambe.

Non sono ancora riuscito a rivedere la scena». I super 8 di lui ragazzino accanto alla mamma («è lei che mi ha insegnato a guardarmi intorno nel quartiere! 'Osserva, Carletto, osserva..'), le feste in casa, con gli sfottò di Massimo Troisi, i giudizi dei figli Giulia e Paolo («ci siamo davvero goduti papà nella pausa che precedette Borotalco: lui era in una fase lavorativa delicata, noi felici»), gli scherzi al padre Mario, da quello perfidamente ricambiati. «Quanto ci rimasi male - ricorda Carlo presentando il documentario che lo celebra - quella volta che la Rai ci intervistò insieme, e lui disse di me che ero in una fase calante, mi sarei presto trasformato in un semplice guitto.

Mi sentii uno straccio. Ma era una burla di papà, un modo per vendicarsi di quella volta che mi ero fatto passare per un futurista infuriato per l’esclusione da un suo libro sul movimento».

CARATTERISTI
Nel film le immagini del rapporto mai scontato fra i due. E tanto altro ancora. «Avevo paura che Carlo! diventasse il mio epitaffio - confessa Verdone -, ma poi ho capito che sarebbe bastato raccontarmi con sincerità. Quanto materiale abbiamo dovuto scartare! Contenuti esclusi dal documentario finiranno in un dvd di prossima uscita».

Come mettere il punto su alcuni capitoli di una vita intensissima, prima di passare ai successivi. «Ho pronti cinque diversi soggetti per un film che racconterà la fragilità e le difficoltà del periodo che stiamo vivendo. Una commedia agrodolce, com’è nel mio stile - annuncia Verdone -. Con un rammarico: non esistono più i grandi caratteristi d’un tempo, Tina Pica, Ave Ninchi, Nino Taranto. Oggi tutti vogliono essere protagonisti, ma è uno sbaglio, e un danno per noi che non troviamo più figure importanti di contorno».

Interprete del nuovo lavoro, probabilmente, sarà Paola Cortellesi: «Ma deve ancora leggere la stesura definitiva. Bisogna vedere se avrà tempo, se si riconoscerà nella mia scrittura».

MORALISTA
L’attualità, dunque. Dosata a modo suo, come sempre. «Mi domando cosa sia accaduto a questo nostro Paese. Siamo ancora in corsa, o non c’è più speranza per noi? Le nostre università erano il fiore all’occhiello dell’Europa, ora siamo precipitati al trecentesimo posto. I giovani scappano all’estero, e gli italiani s’allontanano dalle urne.

Sembrerò pure un moralista, ma non mi dispiace, e penso di conoscere le ragioni della disaffezione: davanti a noi sono sfilati troppi casi di persone incapaci di far rispettare le regole attraverso il loro stile di vita personale.

Troppi cattivi esempi, mentre tutto attorno a noi crollava. Vediamo ora cosa riuscirà a fare questo governo, che, non per sua colpa, nasce sotto il segno dell’emergenza. Ha il marchio del tempo determinato».


Laura Martellini - 28 maggio 2013

Intervista a Joe Bonamassa (di Carlo Verdone)

Visitando blog specializzati in musica e leggendo molte recensioni sui tuoi numerosi album, appare ormai chiaro che sei è entrato prepotentemente nell’olimpo dei migliori chitarristi viventi di blues e rock dell’epoca attuale. Che effetto ti fa trovarsi accanto nelle preferenze a Jeff Beck ed Eric Clapton? Te lo saresti mai aspettato?

Aspettarmelo…no, sul serio, ma non credo neanche di essere ancora posizionabile a quel livello…nell’Olimpo dico. Mi piace l’idea di poter essere sulla giusta via, ma probabilmente sono ancora alla ricerca del mio pubblico, o meglio che il pubblico di un certo respiro voglia trovare me. Sono stato fortunato, ci sono tanti bravissimi chitarristi li fuori, ma il punto rimane quello di toccare più` gente possibile con la tua arte….il salto di qualita` è proprio li, quella diventa la strada giusta da seguire, quando sai che stai arrivando alla gente e a quello che sarà` il tuo pubblico di domani.


Credo che alla base del tuo successo ci sia stato non solo una grande passione per la chitarra ma un grande rispetto per i “grandi del passato” ai quali spesso dedichi delle fantastiche cover che riesci a personalizzare con il tuo stile. Quanto è importante restare fan nonostante il successo?

Credimi, sono e sarò sempre un fan, non mi vedo dall’altra parte…ti dicevo, mi ritengo fortunato di essere ad un certo livello e di anche dividere il palco con delle leggende, ma rimango un loro fan, sono loro che mi han spinto ad essere chi sono attraverso l’ispirazione che poi mi son trovato ad elaborare…chiaro, è sempre un grande piacere, e cosi` rimarrà , il suonare i pezzi dei grandi, dando quel colore che poi ti appartiene e fa parte della tua personalita`e del tuo suono…quello che hai nelle mani. Del resto nel ciclo delle cose, per chi ha scritto quei pezzi ce ne sono stati altri a cui si sono ispirati a loro volta e che han suonato alla loro maniera…vale in tutte le arti credo.


Appare chiaro che devi avere una cultura immensa verso il blues e il rock. Se dovessi scegliere tre album del cuore, quali ritieni quelli fondamentali per la tua crescita?

Parecchi…ma diciamo Jeff Beck Group “Truth”, Rory Gallagher “Irish Tour 74”, Cream “Fresh Cream” e potrei continuare con John Mayal feat. Eric Clapton “The Blues Breakers”….ma la lista andrebbe avanti tra BB King e ZZ Top etc….ce ne sarebbero di nomi…sai com’e` quando si parla di queste cose…ci va tutta la tua adolescenza di mezzo, se non oltre.


Ogni tuo concerto è sempre esaurito dopo poche ore, la tua voce migliora di album in album e la raffinatezza nel tocco è ormai superba. Ritieni in questo momento di aver raggiunto l’apice del successo o senti di poterti spingere oltre? E in che modo?

Per me è sempre una questione di cercare un contatto con il pubblico attraverso la musica e cercando di andare un gradino più` in alto se possibile, tenti sempre di dimostrare chi sei o chi sei diventato…sai com’è…mi dicono che anche tu sia un musicista…indipendentemente dal livello a cui si è, quando sei li davanti vuoi sentirti sicuro di andare al massimo delle tue capacita`…sei sempre alla prova, una sfida infinita con te stesso…perchè solo dentro di te sai quando stai andando bene…te lo senti…lo vedi in chi ti sta di fronte…e quindi di volta in volta cerchi di ricreare quella sensazione di benessere…non esiste il rimanere seduto sugli allori, capisci?


Quello che sorprende il pubblico è l’assoluta sicurezza e precisione in ogni tuo concerto dal vivo. Potenza, delicatezza e velocità si susseguono in modo fluido, senza il minimo errore. Mi chiedo se come tutti i mortali hai una carica di ansia prima di ogni concerto o sei assolutamente concentrato e sicuro? Non credo sia stato facile affrontare la Royal Albert Hall e il Beacon Theatre … Ma eri una macchina da guerra!

Grazie del complimento! Beh, finchè il tour non è finito, non sai mai cosa può succedere di sera in sera, cerco di non farmi trovare impreparato, fa parte dell’esperienza... ma la sensazione nello stomaco di uscire la fuori rimane sempre, sono il più umano di tutti quando si tratta di queste cose…poi chiaramente entrano in gioco i fattori pubblico, interazione, energia, risposta…tutto si compone e diventa un quadro che cambia nei colori ma non nell’intensità.


Tra i 20 e più album a soli 36 anni qual è quello ti pare più riuscito? E perché?

Se devo pensare a quelli che mi piace riascoltare dall’inizio alla fine, direi The Ballad of John Henry e Black Rock sicuramente, e Driving Towards the Daylight…essendo poi il materiale che mi ha definito maggiormente nei vari live al Beacon Theater e Royal Albert Hall…il disco in uscita a marzo An Acoustic Evening at the Vienna Opera House e` un concentrato di tutto questo nella sua versione diciamo unplugged…son tutti figli miei alla fine…un padre giovane…(risate). Ti devo dire pero` che spero di non aver fatto il mio migliore disco ancora…e spero comunque succeda magari quando avro` 60 anni, vuol dire che staro` ancora ‘spingendo’.


La collaborazione con la cantante Beth Hart nel cd Don’t Explain è una perla di grande raffinatezza ed energia. Sembrate fatti l’uno per l’altra. Ci possiamo aspettare un nuovo progetto?

Beth è una di quelle cantanti che il mondo intero dovrebbe conoscere: cosí vera, intensa potentissima, la voce della natura è in lei…non ce n’è per nessuno, so che ne avete avuto un assaggio in tv ultimamente in Italia (Quelli che il calcio, ndr)…e che lo show di Milano sarà sold out…merita tutto quello che questo mondo può offrire…va a capire il business a volte…comunque stiamo finendo un disco assieme che uscirà tra qualche mese…e seguirà un tour sicuramente.


Suonerai il 28 a Milano e il 3 a Padova. Cosa trovi nel pubblico italiano rispetto a quello di altre città europee?

Per quanto sembri un clichè, anch’io mi ritrovo nelle radici italiane quando torno a suonare nella patria dei miei nonni, ho sempre avuto una buona stella in questo paese, son stato seguito anche quando suonavo le prime volte in piccoli club, un istinto forse…manco da un paio di anni, credo che con questa nuova band e l’energia accumulata riuscirò a convincere un numero sempre maggiore di gente a diventare il mio pubblico di riferimento... abbiamo il fuoco dentro.


Si dice che tu abbia in casa circa cento chitarre personali. Altri dicono quasi duecento! Ma di quanti metri quadri è questa casa, perché deve essere un percorso di guerra camminarci.

Eh, eh..lo so, è diventato un gossip, a dire il vero ne avevo molte di più una volta, ora sono circa sulle 100, ma ci sono delle gemme di prima purezza, come Les Paul del 59 e 60 con certi numeri di serie che fan la differenza per chi è del mestiere…Nel tempo mi sono liberato delle cose che non mi emozionavano più tanto…tutto si evolve nella vita…ma comunque, si…ne possiedo pur sempre molte.


Possiamo contare di vederti presto anche a Roma? Ci sentiamo molto penalizzati e vogliamo ascoltare anche noi “Mountain Time” come intro del tuo concerto! Qui i tuoi fan crescono …

Cavolo, lo so…sfondi una porta aperta... Roma sarebbe uno di quei posti da sogno, chiaramente il famoso ‘routing’ o itinerario di un tour, spesso obbedisce a delle leggi superiori chiamate ‘logistica’….che non sempre vanno a braccetto con le tappe ideali…ma ci arrivo, stai sicuro! Grazie Carlo della tua attenzione per la mia musica, ci vediamo a Milano il 28 Febbraio, mi sa...
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ultima intervista uscita su L'Osservatore Romano a cura di Pio Cerocchi

Carlo Verdone amico di antichissima data, lui autore, regista e attore famoso; io semplice giornalista un po’ bastonato dalla vita, ci rincontriamo un paio di volte in altrettante occasioni nelle quali Carlo parla di sé, ma soprattutto dei cambiamenti della società scenario fedele dei suoi film. Una lettura attenta della realtà la sua. Tanti spunti di riflessione e l’idea di una conversazione-intervista da pubblicare sul giornale che non t’aspetti e che con sapienza va nella direzione di riavvicinare mondi e culture troppo frettolosamente dichiarate estranee tra loro e che, invece, tali non sono. O almeno molto meno di quanto comunemente si creda. Tra amici non è proprio facile parlare davanti a un registratore, ma è così e questo è ciò che da quella conversazione è nato.

Caro Carlo, tu dici sempre di essere contento di essere nato nel 1950, di avere visto la vita in bianco e nero. Insomma un’altra società. Ma questo sentimento aiuta a capire il presente?
“Per me che l’ho vissuto, quel periodo, quelle immagini, quei sapori, quelle atmosfere rimangono una gradevolissima carezza. Un abbraccio. Quegli anni hanno sviluppato la mia sensibilità; mi hanno fatto conoscere fortunatamente tante persone con dignità e una disciplina che in qualche modo la gente aveva e, anche, un po’ di rigore. Erano gli anni della ricostruzione dopo la guerra, era un popolo che si rimboccava le maniche e si preparava al futuro sgobbando in maniera diligente. Insomma c’era maggior dignità nelle persone e anche maggior fiducia nel prossimo. Mi colpì molto mio padre quando sul letto di morte, tre giorni prima di perdere conoscenza, fissava il soffitto ed io gli chiesi: ‘Che guardi papà? Ti abbasso l’aria condizionata’? ‘No – mi rispose - stavo riflettendo a una cosa’. ‘Che cosa? Io sono stato un grande antifascista, tu lo sai quello che ho fatto, però ti arrivo a dire che, nonostante il tragico errore del fascismo, anche nell’epoca fascista c’era una dignità che oggi io non ritrovo minimamente. Mi scoccia dirlo: che brutto periodo! Che brutti tempi che vi lascio’! Questa è stata la sua ultima considerazione. Quando guardo i primi film in bianco e nero del mio autore preferito che è Federico Fellini, ho una specie di gioia interna perché rivedo quella società degli anni cinquanta che, pur essendo bambino, dal ’55-’56 ho cominciato ad assorbire. Ricordo alcune fotografie, certi sapori, certe atmosfere, certi rumori e anche un po’ la mia famiglia dentro casa, perché rivedevo tanti personaggi che Fellini rappresentava vuoi nei “Vitelloni” come pure nello “Lo sceicco bianco”, ne “La dolce vita” e ne “Il bidone”. Sarà perché ero piccolo, però certamente ero un bambino molto felice. Avevo una famiglia serena e davanti agli occhi una realtà gentile. Oggi trovare un bambino felice, un ragazzo felice, è molto difficile. I giovani hanno tanti problemi, perché non vedono attorno orizzonti di sicurezza. Perché chi è al comando non offre sicurezza e non dà esempio di autorevolezza”. Vedo molti vestiti da onorevoli ma non vedo nessun politico.

Dimmi allora: quanto pesa la nostalgia?
“No, non pesa affatto la nostalgia. La nostalgia è un abbraccio. Guai se mancasse la nostalgia. La nostalgia è memoria, rispetto , ricordo piacevole di cose passate. Non pesa. E’ come aver percorso un sentiero meraviglioso; la nostra vita è attraversare una serie di periodi e quello è stato sicuramente un periodo molto importante, molto piacevole e molto gradevole. Il suo apice poi è stato negli anni ’60 certamente i più colorati e i più creativi di tutta la nostra vita. Pure in altre epoche gli uomini sono stati sicuramente bene, ma non c’erano le medicine e si moriva prima. Noi no, stavamo bene e c’erano tanti ideali. Purtroppo insieme a quelli buoni, sono arrivati anche i farmaci cattivi e penso alle droghe, e a quel punto ci siamo un po’ sgretolati tutti quanti. Poi siamo entrati in un mondo un po’ sbagliato, fatto di valori effimeri e senso di onnipotenza. Ed internet ne è la prova. Io non lo critico affatto, però, come tutte le cose potenti, quello strumento fa cose straordinarie ed utilissime ma messo in mano a chi ha idee pessime diventa devastante.

Parlami anche della fede religiosa: può ridursi soltanto alla nostalgia, o, invece, ancora ci interroga sui nostri destini ultimi? Sul senso stesso della vita?
“In un capitoletto del mio sito, ‘Verdone a 360 gradi’, c’è scritto: ‘Qual’è la fatica più estenuante? Rincorrere la fede’. Ecco, io sono un credente, con centomila punti di fragilità, con diecimila incertezze con un giorno che vedo bene le cose ed un altro no, però non credo al credente che mi dice: ‘Io credo e sono tranquillo con me stesso’. Io credo a colui che si interroga quotidianamente, o molto spesso, su come riprendersi la fede. La fede per me è un rincorrere la fede continuamente che porta a interrogarti dentro. Certe volte stimo molto di più delle persone atee che dicono di non credere, perché vedo che nella loro vita hanno un comportamento assai retto. Viceversa ci sono dei credenti che vanno in chiesa, declamano anche con grande sicurezza la loro fede, ma hanno un comportamento ipocrita. A quelli credo molto poco. Quello della fede, infatti, è il problema dei problemi: la rincorri continuamente perché ti sfugge e la riprendi. E’ una fatica estenuante: però senza questo interrogatorio sofferto che fai a te stesso, non avrebbe senso continuare a vivere. E più si va avanti con gli anni, più ci si riflette perché si pensa al momento in cui dovrai lasciare i figli, le persone care, quelle più giovani: io ci penso. Eccome se ci penso! Però c’è qualcosa dentro di me che mi fa credere che la morte dell’uomo in realtà è una morte apparente, e che dopo la vita ricomincia in un altro modo, ma è qualcosa che non sappiamo comprendere bene. Probabilmente siamo un tutt’uno, un mosaico di un’unica entità; siamo dei frammenti di Dio. Comunque se smettessi di riflettere sulla fede, sarei un grande superficiale; una persona un assolutamente mediocre”.

Questa riflessione non facile, né leggera, seppure non detta, sostiene spesso la trama del tuo racconto trovandogli uno sbocco sereno, leggero che lo trasforma in commedia…..
“….perché c’è una chiave compassionevole in ogni mio film. Compassionevole verso i miei personaggi. Non voglio dire che tutti i miei film sono delle straordinarie commedie. No, ci sono delle commedie che mi sono riuscite meglio ed altre meno bene. Nelle migliori c’è questo comune denominatore: voler bene a questi personaggi, avere compassione delle loro debolezze e perdonargliele perché sono deboli. Certo, ho sempre interpretato personaggi mitomani, molto fragili, con debolezze prettamente umane, con i vizi tipici degli uomini di sempre e, qualche volta, dei vizi che in realtà appartengono in modo peculiare al nostro Paese e, quindi, alla situazione italiana che continuo ad osservare. Alla fine vizi e tic che appartengono un po’ a tutti. Ho trattato spesso una categoria di miserabili e si vedrà anche nel mio prossimo film, ‘Posti in piedi in Paradiso’, che tratta il dramma dei padri separati, senza una lira e che danno tutto alla famiglia. Ed ho un moto di compassione per loro; era difficile fare una commedia su questo tema, si ride molto, però alla fine si riflette anche molto, perché farne solo una commedia ridanciana, sarebbe stato un fallimento. C’è un mio pensiero su questi uomini che possono avere compiuto degli errori nella vita, o sono stati sfortunati. Ho sempre trattato l’essere umano come una persona da accarezzare, qualche volta da compatire o da aiutare e qualche altra da riderci sopra, ma facendone anche una critica di costume. Però non sono mai stato un cinico, sono sempre stato un passionale e per questo mi sono sforzato di trovare qualche elemento positivo anche in un personaggio sbagliato; o almeno ho tentato di redarguirlo, ma forse con affetto, con le risate che gli faccio fare dal pubblico”.

Mentre venivo da te, mi sono ricordato la letteratura greca del liceo dove Perrotta scriveva che nell’età classica, la commedia era più considerata della tragedia. Questa in fondo era un devastante racconto di dolore e di sofferenza, di situazione gravi; la commedia, invece, era quella che, nonostante le condizioni della vita, doveva suscitare un sorriso. Penso che tu sia d’accordo….
“I film che hanno trattato meglio la situazione italiana nel dopoguerra, quindi situazioni molto serie, guerra compresa, sono state le commedie. La commedia ha saputo raccontare il Paese, la sua tragedia e i suoi drammi molto meglio del film drammatico. Mi riferisco a “La grande guerra”, “Tutti a casa” e “Una vita difficile”. E’ vero, se tu leggi Plauto trovi quasi delle massime filosofiche che sono molto più lapidarie, efficaci e introspettive di tanta letteratura drammatica. Penso a Plauto, ma anche e soprattutto a Pubilio Siro con le sue Sententiae”.

La tua ironia presuppone un rapporto non episodico con i valori; dietro a ogni racconto, ad ogni commedia, c’è una visione dell’uomo, un umanesimo. Secondo te è ancora possibile proporne qualcuno in un tempo desertificato di valori?
“Ma certo che si. E’ un po’ più faticoso nel senso che l’atmosfera attuale non aiuta molto. Però se uno continua a fare questo lavoro, lo fa perché continua ad essere appassionato del prossimo. Appassionato dei cambiamenti della società, del linguaggio. Io sono convinto che se chiediamo a cento persone: ‘Vi piace il periodo che state vivendo? Se è si mano giù, se no alzate la mano’, alzerebbero tutti la mano perché c’è qualcosa che non va. Non va nelle persone che ci guidano, non va nei valori che ci sono oggi. Nelle occasioni un po’ più serie, io dico sempre: ‘Quello che dovrebbe essere il Paese con più etica del mondo perché c’è la Chiesa e tutta una storia ad essa collegata, invece sta diventando il Paese più immorale del mondo’. Un punto di crisi secondo me è anche nella confessione troppo spesso interpretata come tacita sicurezza che alla fine puoi ricominciare da capo come se non fosse successo nulla. Sarebbe troppo comodo e penso alla maggior parte dei grandi mafiosi che in cella hanno le immagini sacre, la Bibbia e credo che abbiano molto male interpretato i due ladroni accanto a Gesù Cristo sul Golgota, come a dire: ‘Ma alla fine si, abbiamo sbagliato, però vuoi che non ci perdona?’. Si, dico, ma c’hai trecento morti alle spalle e intere famiglie distrutte! Un teologo ti spiegherebbe molto meglio ciò che sto dicendo nel senso che quello che hai fatto, hai fatto e che però è possibile rimettersi in moto con una nuova energia e una nuova etica basta su un autentico pentimento….cose di sostanza e non tanto di forma…..”. Su questo argomento delicato e tanto messo alla prova in tutti i tempi, la nostra conversazione sfuma sui ricordi della famiglia, della congregazione, di lungotevere Vallati, degli amici di un tempo e di quelli che non ci sono più. Già quella vita che Carlo ci ha raccontato tante volte e ci racconta ancora.



Pio Cerocchi